L’esperienza più interessante che hai fatto negli ultimi anni?
Dopo anni passati ad accumulare competenze professionali, credo che l’esperienza più interessante degli ultimi tempi sia stata dedicare tempo ad un percorso di crescita personale, iniziato grazie a un corso di counseling che ha trasformato radicalmente il mio approccio al lavoro e alla relazione con gli altri. Sarebbe bello che l’educazione formale contemplasse fin dall’infanzia percorsi di questo tipo all’interno dei curriculum scolastici, equilibrando con più “saper essere” il tempo dedicato ad allenare il “saper fare”. Forse avremmo la vita più facile da adulti e saremmo meno soli nello scoprire, a forza di circostanze, libri e cadute, le coordinate di fondo di chi siamo e di come possiamo autenticamente-contribuire-a-cosa. Questo pensiero mi torna in mente di frequente nelle esperienze che faccio per lavoro o volontariato. Mi capita di entrare nelle organizzazioni per analizzare gli ostacoli all’innovazione e spesso le questioni dirimenti non sono fattori oggettivi legati al mercato, alla crisi, alla tecnologia, ma il malessere delle persone per non essere viste e valorizzate, l’incomunicabilità creata da gerarchie inutilmente rigide, le relazioni conflittuali e competitive, i giudizi che mirano a colpire il singolo invece che limitarsi a criticare costruttivamente l’idea, gli obiettivi orientati più dall’ego che dall’interesse per uno scopo comune. Ed ogni volta mi chiedo: puoi davvero innovare se non sei disposto a ragionare apertamente anche su questo?
Da questa prospettiva mi sto appassionando allo studio dei modelli organizzativi costruiti attorno alla centralità della persona, che dedicano spazio lavorativo alla crescita personale e alla cura dell’ascolto e della relazione con gli altri. In generale, si tratta di realtà che non si muovono con le logiche della responsabilità sociale “perché va fatta”, ma per seguire l’intuizione che un approccio di questo tipo sia l’investimento più efficace per far sì che i singoli siano poi disposti a dare, o a rinunciare a pezzi di protagonismo, pur di far parte di un processo di innovazione collettiva. Trovare modi sempre nuovi di riattivare la creatività già presente, ma non riconosciuta, dentro le organizzazioni è fonte per me di una soddisfazione enorme. Non si tratta di inventare qualcosa o calarlo dall’alto, ma di creare connessioni inedite tra ciò che già c’è, con lo scopo di liberare energia.
Una lezione che hai imparato e che racconteresti ad una platea di studenti?
Il mio primo lavoro è stato un trauma. Avevo 24 anni e dovevo coordinare un progetto di lotta al lavoro infantile in una discarica centroamericana. Bambini il cui lavoro, illegale e ben remunerato, rappresenta spesso l’unica fonte di reddito per intere famiglie. La soluzione, incoraggiata in quel momento dalle istituzioni locali, è stata quella di portare la scuola dentro la discarica e non i bambini fuori, perché qualsiasi altra opzione, apparentemente più “corretta”, avrebbe minato alla base qualsiasi possibilità di dialogo con quella comunità, portando a rinviare il problema invece di risolverlo. Mi sono persa tante volte dentro contraddizioni simili, andando alla ricerca delle condizioni ideali, di ciò che è “più giusto” fare o non fare. Col tempo ho imparato che l’unico modo per diventare adulti restando integri è quello di fare spazio alla convivenza degli opposti, senza cedere all’illusione di controllo che c’è dietro ad ogni tentativo di semplificazione. Ho imparato che significa, ad esempio – come scriveva Fitzgerald – valutare lucidamente che alcune situazioni sono irrisolvibili e, al tempo stesso, mantenere ferma la determinazione di volerle comunque cambiare. Quando ti muovi da questa posizione, ti accorgi con sollievo di poter mettere a rischio la tua importanza, e l’autoironia diventa una strategia preziosa per combattere la forza sterile del cinismo e della disillusione.
Una cosa che non hai ancora fatto ma che prima o poi farai?
Vorrei costruire una barca insieme a mio padre, e poi con quella prendere il mare. Costruirla da zero perché non è lo stesso salirci e basta. Perché costruirla ti permetterà di navigare con un oggetto di cui conosci la storia, ogni pezzo, ogni incasso. C’è un potere per me nel saper trasformare la materia con le mani, e mio padre, figlio di pescatori e maker ante litteram, in questo è maestro. Ha la sapienza tecnica di un ingegnere senza averne i titoli e quando gli chiedo come ha fatto ad imparare, mi risponde sempre stupito della mia domanda sciocca: “in che senso? Ho imparato facendo e osservando quelli più bravi di me”.
Una persona che conosci bene e con una storia assolutamente da non perdere?
Mi vengono in mente storie collettive. Come quella delle mie amiche Francesca, Claudia e Mariella che, nonostante lavori impegnativi e bambini da crescere, hanno trovato l’energia per creare Netural Family, una piattaforma che dà gambe al sogno di costruire un Paese a misura di famiglia, mettendo in rete tutte le realtà che in Italia stanno contribuendo con pensiero, strumenti e servizi a sostenere i bisogni di nuclei familiari di qualsiasi orientamento, tipo o colore. O quella di Veruska e Daniela, che tre anni fa hanno lasciato lavori ben avviati per diventare imprenditrici e fondare 2bhappy, il primo acceleratore italiano che fa leva su un mix di neuroscienze, filosofia ed intelligenza emotiva, per creare contesti dove il benessere sia un valore e la felicità un obiettivo alla portata di tutti. Pensando a loro mi viene in mente che sono entrambi progetti nati prima di tutto da un’amicizia sana, che è un requisito spesso sottovalutato e che invece si rivela prezioso per mantenere quella leggerezza necessaria per potersi prima di tutto divertire.
9 giugno 2017