L'esperienza più interessante che hai fatto negli ultimi anni?
Professionalmente, lavorare come capo del rischio nel salvataggio bancario di Royal Bank of Scotland. Cinque anni difficilissimi e carichi di stress, ma che hanno agito come un acceleratore della mia esperienza. Una specie di viaggio attraverso le pieghe spazio-temporali. La difficoltà e la montagna di problemi mi hanno fatto maturare ed aiutato a cogliere ciò che è essenziale e ciò che non lo è. Dover gestire circa 300 miliardi di crediti di cui molti – come si dice tecnicamente – “deteriorati”, è stato l’equivalente di fare i 5 mila metri in apnea. È stato in quegli anni che ho capito che le scalate, le “salite ardite” di Lucio Battisti, si compiono certo se si ha senso della direzione e senso della condivisione con gli altri, ma anche se si sa essere pronti ad una sfida da solitari, ogni tanto. Se uno è disposto a prendersi gli strali, i fulmini, le frane. Anche quelli che toccherebbero agli altri.
Personalmente, invece, l’esperienza più incredibile è stata quella di poter spendere due ore del mio tempo con Clarence Benjamin Jones, la persona che ha lavorato con Martin Luther King e che gli era accanto quando proclamò il famoso “I have a dream”. È stato come passare due ore con la storia in persona, con quella storia buona, fatta di intuizioni geniali, di lavoro duro e di abnegazione oltre ogni misura. Quella storia che cambia il mondo. L’istante dopo che Luther King disse quelle parole, tutto il pianeta, tutta la società mondiale, erano diverse. Erano state trasformate da quel guizzo di genio. Parole che non doveva pronunciare, perché il discorso preparato era un altro. Ma parole che a sorpresa pronunciò. E – mi piace pensare – se Clarence Jones ed io siamo potuti stare assieme nella stanza di un ufficio a parlare per due ore, in un mondo più libero e giusto, lo dobbiamo anche a quella intuizione.
Una lezione che hai imparato e che racconteresti ad una platea di studenti?
Una frase che era scritta dietro una pagina di un breviario che apparteneva a mia nonna. “Si possono perdere tutte le battaglie, ma, alla fine, si può vincere ancora la guerra”. È una forma di atteggiamento agli antipodi di una società che ti dice che si può solo vincere tutto e subito. E che non permette il fallimento, l’errore, l’approssimazione per eccesso o per difetto. Una società che non permette l’aggiustamento, l’arrangiarsi anche nei pochi mezzi che si hanno. Che non crea opportunità ma aspettative che si scontrano con la realtà. Per quello mi piace ogni tanto ripensare a quella frase di mia nonna. Perché nel mio lavoro so che non esistono ottimi paretiani, e spesso neanche i “second best”. Ma che esiste quella combinazione di volontà e di tendenza ad accettare i limiti come parte di un processo che – a sorpresa – è alla base di tante storie belle (non parlo nemmeno di “successo”) che ho conosciuto. Chi vuole provare a lasciare un’impronta nel mondo, deve accettare di rinunciare a qualcosa.
Una cosa che non hai ancora fatto ma che prima o poi farai?
Rilassarmi, chiudere ogni cosa che abbia una connessione con il resto del mondo in una stanza, prendere la mia famiglia e passare un periodo di tempo convenientemente lungo da qualche parte, in campagna, sul mare. Ignorando il mondo e il flusso continuo di notizie, di eventi. Ritrovare il tempo vero, quello umano, delle ore e non quello insano degli istanti della finanza e delle decisioni. Spesso le persone fanno digiuno per sentirsi liberati. Credo che un periodo di digiuno dai tempi moderni, anche solo per qualche settimana e dove siano alba e tramonto a dettare le giornate, potrebbe essere di grande beneficio a ritrovare l’equilibrio. Immagino questo momento come sedermi su un albero in mezzo ad un campo, circondato dalle persone a cui voglio bene. Permettendomi di maturare pensieri che, spesso, devo mettere da parte per farmi dominare dalle preoccupazioni. Non a caso, mi chiamo Cosimo come il protagonista de “Il barone rampante”. Mia madre, poco prima di morire, mi disse: “gli aerei sono la tua foresta”. Aveva ragione.
Una persona che conosci bene e con una storia assolutamente da non perdere?
Non una ma due: le mie figlie. La loro storia è assolutamente da non perdere per vari motivi: il primo è che ancora non esiste, avendo rispettivamente quattro e dieci anni. Due storie ancora non scritte che possono ancora andare veramente ovunque. E mi piacerebbe essere con loro, mentre decideranno la trama, il loro destino, cosa fare del tempo, degli anni davanti. Il secondo motivo è che sono due figlie di questi anni, cresciute da genitori stranieri in terra estera, con due lingue in cui discorrere in casa e con tutti gli stimoli di questa combinazione genetico-sociale di cui godono. Ecco, le loro storie sono tutte da non perdere, come non è da perdere nessuna di questo milione di avventure umane che ogni giorno ci passano davanti. La biografia migliore è quella ancora da scrivere, e le mie figlie sono un esempio di questo. Sono parte di uno dei futuri possibili per i quali vengo a lavorare a Lussemburgo ogni settimana, un futuro che spero europeo, democratico e compassionato. Un futuro che sa di sogni, tempo riacciuffato per quello che vale, e rispetto.
3 giugno 2016