Federica Vinci

(Isernia, 1993) Nata nella regione che non esiste, Federica è orgogliosamente molisana, italiana ed europea. Cresciuta tra le montagne isernine, a 19 anni ha lasciato casa per andare a studiare prima Scienze politiche a Roma e poi International public management a Parigi. Innamorata del sogno europeo, a seguito della Brexit ha creato con un gruppo di giovani europei Volt Italia, parte di Volt Europa, il primo partito progressista paneuropeo volto a intraprendere un'azione collettiva per rafforzare l'Unione Europea. Nel suo ruolo di co-presidente di Volt Italia, Federica anima gli sforzi di Volt per cambiare il modo di fare politica, convinta che solo unendo alla partecipazione elettorale campagne di attivismo sul territorio si possa realizzare una società più giusta e sostenibile. Policy Leader Fellow per la School of Transnational Governance di Firenze e Obama Leader: Europe 2020 della Fondazione Obama, oggi Federica è tornata a Isernia, dove insegna Community Organizing come teaching fellow per la Harvard Kennedy school of Government e lavora alla costruzione di un modello per facilitare l'attivismo progressista in aree rurali.

Qualcosa di particolarmente emozionante a cui stai lavorando?

Un manuale di attivismo politico per piccoli centri urbani e aree rurali, basato sulla teoria ma guidato soprattutto da tanta pratica. Credo fortemente nella politica dal basso e per politica intendo qualunque attività creata da cittadini che porti un cambiamento positivo all'interno delle nostre società. Abbiamo fondato Volt proprio per questo: riteniamo che entrare nelle istituzioni sia solo un mezzo e che tutti disponiamo di potenti mezzi per migliorare la nostra società per il semplice fatto di essere cittadini con cuore, testa e mani in grado di unirsi e fare attivismo civico. Negli ultimi tre anni abbiamo portato questo modello di politica attivista in tante grandi città italiane ed europee. Oggi è arrivato il momento di andare oltre Roma, Milano, Firenze e raggiungere i piccoli centri, quelli abbandonati e sfiduciati dalla politica: Isernia, Roseto degli Abruzzi, Enna. È questo il lavoro che mi appassiona di più oggi: con Volt e con giovani leader europei della Fondazione Obama stiamo realizzando un modello di attivismo civico e politico disegnato a misura di piccoli centri, per partire dall'ascolto e trovare soluzioni con le persone a misura dei loro luoghi e problemi. Lo scorso novembre sono partita a Isernia da tre attivisti, oggi siamo un gruppo di 50 donne e uomini di età molto diverse che scrivono un programma politico, puliscono e risistemano parchi, ascoltano i cittadini e si preparano alle elezioni "sporcandosi le mani".

 

Una cosa che il Covid-19 ti ha tolto, ed una che invece ti ha dato?

Mi ha tolto il calore del contatto con le persone, ma mi ha anche ridato casa mia. Il Covid mi ha tolto il calore delle piazze, quella forza indescrivibile delle giornate a stare in giro ad ascoltare di persona e fare incontri. Mi ha tolto gli abbracci senza paura – sono una che abbraccia in maniera seriale! – e quella sensazione del "ce la possiamo fare" che hai quando appoggi la testa sulla spalla dei tuoi compagni di viaggio o ti tieni per mano mentre vai a fare campagna per il tuo partito. Credo che questa sia la cosa più grande che il Covid mi abbia tolto: il calore del contatto umano. Ciò che invece mi ha dato è stato qualcosa di tanto grande quanto inaspettato: la riscoperta di casa mia. Sono nata e cresciuta Isernia, 21.500 anime nella regione che non esiste. Ho lasciato casa a 19 anni per andare a Roma, poi Parigi, Bruxelles, Copenaghen, Milano, Firenze e l'ultima cosa che avrei mai immaginato era che potessi tornare qui, figuriamoci restarci. Eppure, ero proprio qui per un'occasione familiare quando il governo ha dichiarato il lockdown nazionale un anno fa. All'inizio è stata durissima: tornare a vivere in casa dei propri genitori, nella propria cameretta adolescenziale, passare dal viaggiare venti giorni al mese a ritrovarsi a fare ogni cosa via zoom. Tutto questo mi ha quasi mandata al manicomio. Per nove mesi, mi sono svegliata ogni mattina chiedendomi come scappare, con il diavoletto su una spalla che mi diceva "prenota un volo, vattene" e l'angioletto che mi frenava ricordandomi di essere nel bel mezzo di una pandemia globale. Tutto ciò fino a quando, lo scorso novembre, mi sono arresa alle mie stesse paure e mi sono resa conto che il motivo principale per cui tentavo di scappare stava nel non accettare che davo Isernia e il Molise troppo spacciati per poter fare qualcosa. Temevo di fallire a casa mia, per questo la fuga era la più facile delle opzioni. Il Covid mi ha dato questa consapevolezza, e siccome non mi piace vivere di paure, grazie anche ad un gruppetto di ragazze e ragazzi sul territorio abbiamo deciso di attivarci in una regione politicamente disastrata, abbandonata da tutti tranne che dai "vassalli", dove la scelta politica è tra chi ti promette il pane e chi ti dà le briciole. In tre mesi abbiamo radunato una cinquantina di attiviste e attivisti e con il metodo del Community Organizing che abbiamo sperimentato come Volt, stiamo adesso ascoltando i cittadini della città per capirne i problemi, trovare soluzioni basate sulle migliori prassi europee e creare un programma politico e di attivismo che ci guiderà fino alle elezioni di ottobre 2021.

 

Il pensiero laterale più ricorrente di queste settimane?

Possiamo tornare a costruire ponti tra le persone e creare fiducia – nelle istituzioni, nella politica, nella scienza, nell'istruzione – se abbiamo il coraggio non solo di ascoltare ma anche di essere vulnerabili. Certe volte mi viene da pensare che tutta la mia vita è un pensiero laterale! Non ho mai creduto che esistano risposte semplici a problemi semplici, figuriamoci a problemi complessi. Siamo noi stessi individui complessi, incompleti, contraddittori e le istituzioni che creiamo ci rispecchiano tanto quanto i problemi che dobbiamo affrontare. In questi ultimi mesi, complice anche la partecipazione al programma della Fondazione Obama, mi sto interrogando molto su come ricreare fiducia e colmare i divari che stanno allontanando le nostre comunità, partendo dalla emancipazione di una nuova generazione che abbia più consapevolezza della propria natura, dei propri limiti, delle proprie vulnerabilità e sappia trasformare tutto questo in forza. Credo ci sia bisogno di insegnare ed imparare ad ascoltare l'altro, senza aspettare il nostro turno per dire solo quello che volevamo sentire! Bisogna anche capire se ciò che ascoltiamo è esattamente ciò che c'è dietro le parole, o se dietro la rabbia per le scuole chiuse c'è in realtà la paura di perdere il lavoro se si salta un'altra riunione su zoom per prendersi cura del proprio figlio a casa. Allora la soluzione non sta solo nel capire come aiutare gli studenti che stanno perdendo socialità, stabilità psicologica ed emotiva, e giornate di apprendimento, ma nel proteggere maggiormente le lavoratrici che ad oggi sostengono il carico mentale e materiale di famiglia e lavoro. Oltre all'ascolto, bisogna ridare dignità alla vulnerabilità e spazio alla possibilità di esprimere quelle emozioni tanto demonizzate come la tristezza, la frustrazione ma soprattutto la paura, per creare legami su emozioni e valori condivisi, e capire come essere semplicemente autentici, altrimenti la fiducia viene a spezzarsi perché i supereroi esistono solo nei cartoni animati.

 

Una lezione imparata anni fa e che racconteresti ad una platea di studenti?

Ascolta quello che hai dentro, fino in fondo. Mi sono laureata nel 2018, avevo 24 anni e una passione immensa per la politica e soprattutto per l'organizzazione che stavo creando in quel momento – Volt Europa e presto Volt Italia, fondata lo stesso anno. Ricordo che la mia preoccupazione più grande in quel momento non aveva nulla a che vedere con l'essere parte di qualcosa di molto più grande di me, tutt'altro. È luglio 2018, e sono terrorizzata dal non riuscire a trovare un lavoro stabile, ben pagato, duraturo, in un ufficio, con una scrivania, un PC, un capo possibilmente non troppo scontroso e magari pure i buoni pasto. Mio padre mi chiama almeno due volte al giorno nelle settimane tra la mia laurea e la fondazione di Volt Italia per sapere se ho fatto abbastanza domande di lavoro, puntato a grandi aziende, ricevuto risposte. Mentre, intanto, una vocina in fondo al cuore mi sussurra: "ma tu, Fede, che non sai stare seduta ad una scrivania neanche se legata, che hai l'orticaria per l'autorità imposta, che dei buoni pasto non te ne può interessare assolutamente nulla. Tu che vuoi vedere la reazione di una persona quando ti comprende e si mette a lavorare ad un'idea con te, tu che ami ascoltare, capire cosa non va e aiutare ad oliare gli ingranaggi, sei proprio sicura che è un lavoro così quello che vuoi?" E come sempre accade in questi casi, prima che arrivi la risposta a questa domanda esistenziale, arriva la fatidica proposta di lavoro presso una grandissima azienda di moda italiana nel reparto di responsabilità sociale d'impresa. Io accetto per la gioia di mio padre senza pensarci due volte, e soprattutto senza ascoltare la stessa vocina che mi ripete "pessima idea, pessima idea, pessima idea". Il lavoro che mi aspetta è esattamente come credevo dovesse essere il mio lavoro ideale, o meglio, come avevo lasciato che qualcun altro lo descrivesse per me. Indovina un po'? Dopo ben quattro mesi di pianti all'entrata e all'uscita, di frustrazione, di buoni pasto al sapore di tradimento di me stessa, ho lasciato tutto in preda ad un attacco di ansia e sono tornata sui miei passi e a quello che davvero mi interessava: Volt Italia e cambiare il modo di fare politica dal basso. Da allora, tra mille difficoltà, borse di studio, insegnamento, e lavori tutt'altro che convenzionali, ho deciso che devo seguire il mio sogno. E quella vocina che sentivo in sottofondo, soffocata dalle urla di ciò che gli altri volevano per me, oggi è un ruggito che si fa sentire ogni volta che sto per fare qualcosa che apparentemente va contro me stessa. Non credo onestamente che mio padre abbia mai condiviso la mia scelta e purtroppo non potrò saperlo più. Di una cosa sono certa, però, perché il suo ultimo messaggio prima di scomparire in un incidente qualche anno fa è stato di seguire sempre il mio cuore, qualunque cosa avessi fatto. Non so se avrebbe mai condiviso, ma di certo mi ha capita.

 

L'ultima volta che hai riso?

L'ultima volta che sono andata contro il senso comune. Amo sperimentare e andare contro il "si fa così, perché così si è sempre fatto" e soprattutto amo quando sperimento qualcosa in un modo diverso e funziona meglio dei metodi "tradizionali". L'ultima volta che ho sorriso è stato proprio quando, con il gruppo di attivisti di Volt Isernia, ho utilizzato metodi ripresi dalle idee di Brené Brown di leadership coraggiosa e adattiva e ho moderato una discussione che aveva il potenziale di divenire tossica, con metodo e soprattutto aperta alle vulnerabilità del gruppo. La cosa più divertente è stata la reazione finale felicemente confusa di ragazzi e ragazze che sarebbero stati pronti a divorarsi ma che alla fine si sono ritrovati più forti di prima senza che volasse neanche un insulto.

 

Una cosa che non hai ancora fatto ma che prima o poi farai?

La risposta vera è: tante, troppe cose. Mi piacerebbe tornare a studiare e forse fare un dottorato che però mi permetta di mettere in pratica quello che sto imparando, o chissà forse un Master in Pubblica Amministrazione negli Stati Uniti o un programma sulla leadership innovativa. Il mio sogno segreto nel cassetto, per ora, è quello di pubblicare un giorno un libro o magari, perché no, una raccolta delle poesie scritte nei momenti di vulnerabilità della mia vita. Tanti, soprattutto in pandemia.

 

La foto scelta da Federica: la piazza di casa sua a Isernia

La foto scelta da Federica: la piazza di casa sua a Isernia.