Gaia Pianigiani

(Siena 1982) È stata “glocal” prima ancora che la parola fosse inventata. Dopo un’infanzia in Chianti e il suo Erasmus a Berlino, gli anni di lavoro e studio tra Londra e New York sono statti costellati da periodici rientri nella sua campagna. Sconsigliata fin dalla tenera età di fare la giornalista, ha vagato per redazioni tedesche ed americane prima di approdare all’ufficio di corrispondenza del New York Times a Roma, da dove racconta l’Italia – e la sua Toscana— al pubblico globale. 

Qualcosa di particolarmente emozionante a cui stai lavorando adesso?

Un libro sugli anni di prigionia, tra Mali e Niger, di una donna italiana vittima dei terroristi islamici. La sua tragica storia è un intreccio tra politica internazionale e scontro di culture molto diverse che mostra il lato umano di criminali noti alle cronache, e di persone comuni che in quelle stesse cronache sono finite per errore. Ma è anche la storia di un incontro magico tra cultura occidentale e cultura africana. Ascoltare il racconto di questa donna è una delle esperienze più intense che abbia mai vissuto.

 

L'esperienza più interessante che hai fatto negli ultimi anni?

L’incontro coi migranti. Tendere la mano ai bambini, alle donne e agli uomini che, dalla loro fatiscente barchetta celeste, salivano a bordo della motovedetta della Guardia Costiera italiana è stato come tornare brutalmente umana in un attimo. Da allora non ho più scritto un articolo sui salvataggi, sui naufragi e sulle politiche di immigrazione senza avere davanti agli occhi gli sguardi di quelle persone. Dopo anni di racconto dell’”emergenza”, adesso stiamo lavorando ad un reportage su cosa succede dopo e su come funzionano politiche di asilo e di integrazione in Italia. Ogni volta che ascolto un politico parlare di “invasione” ho in testa le parole di Emmanuel – 25 anni tra Sierra Leone, Ghana e Libia e un proiettile nel braccio – sbarcato da sei giorni, che mi chiedeva se potevo insegnargli un po’ di italiano. “Come faccio a lavorare qui, se non vi capisco?”, mi ha chiesto. Come giornalista, hai il privilegio di assistere alla vita in prima fila e la responsabilità di raccontarlo. Nel caso dei migranti, credo che l’incontro con le vite di queste persone abbia cambiato il mio modo di essere, oltre che quello di scrivere.  

 

Una lezione che hai imparato e che racconteresti ad una platea di studenti?

Don’t take “no” as an answer. Era il motto di un mio anziano professore della Columbia University a cui penso ogni volta che un ministero mi dice che non esistono dei dati, che un editor rifiuta un pezzo, che qualcuno cerca di convincermi che una situazione è immutabile. Certo, a volte serve cambiare rotta per giungere in porto sani e salvi, ma quella spinta in avanti è l’energia che è alla base di ogni storia di successo. È anche il motivo per cui ho deciso di tornare in Italia nel 2009, quando avevo in tasca un anno di visto di lavoro in America. Tuttti mi chiedevano “perchè?”, del resto in Italia si va solo in vacanza. Incerta sul da farsi, divisi un foglio in due colonne e in alto scrissi da una parte “Sì” e dall’altra “No”. Dalla parte del “No” c’era una lista piuttosto consistente: le possibilità di lavoro, la situazione economica del Paese, la politica poco concreta. Dalla parte del “Sì” c’era un’unica voce: la mia terra. Anche in quel caso, mi sono rifiutata di accettare tutti quei “No” e – dopo sette anni – mi pare ancora un dono poter vivere, raccontare e combattere nel mio Paese.  

 

Una cosa che non hai ancora fatto ma che prima o poi farai?

Il giro del mondo in barca a vela, con l’idea di comprare in ogni porto una bottiglia di vino del posto. Ma prima comprerò una casa di campagna in cui vivrò con le persone a me più care. La famosa “comune” di cui parlo da anni, dove andrò a cavallo e leggerò tutti i giorni. Almeno per un po’.

 

Una persona che conosci bene e con una storia assolutamente da non perdere?

Roberto Mangione, capitano della Guardia Costiera in Sicilia, ed il suo equipaggio. Una vera ciurma di giusti del Mar Mediterraneo. Ero con loro in quel mio primo reportage sui migranti in mare; erano loro che rappresentavano l’Italia nell’emergenza degli sbarchi nelle isole greche all’inizio di quest’anno, e ci saranno sempre loro a Lampedusa quest’estate. Sono persone che per mesi rimangono lontane dalle loro famiglie, pur di permettere ad altre persone – meno fortunate di loro – di sopravvivere e di crearsi un futuro in Europa. Come molti uomini della nostra Guardia Costiera e della Marina, sono ciò di più vicino agli eroi che mi sia mai capitato di incontrare.

17 giugno 2016