Denise Di Dio

(Varese 1978). Calabro-sicula di origine, si occupa di politiche pubbliche e innovazione da più di 15 anni ed è ricercatrice e Managing Director di Tiresia, centro di ricerca presso il Politecnico di Milano. Ha guidato la nascita della policy a sostegno delle startup della Camera di commercio di Milano, e l’avvio dell’incubatore Speed Mi Up con l’Università Bocconi e il Comune di Milano. Ha lavorato ai principali bandi per l’innovazione delle imprese milanesi e lombarde, indirizzando contributi pubblici per 30 milioni di euro sui temi del digitale, del lavoro dei giovani, dell’imprenditorialità. Nel 2014 ha iniziato a lavorare al Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca (MIUR), dove ha curato il Programma Nazionale per la Ricerca e è esperta per il prossimo G7 Scienza.
Ha un Dottorato in Istituzioni e Politiche e un Master in Politiche Pubbliche dell’University College of London. Ha la fortuna di avere persone straordinarie in famiglia e per amici, ed è anche per questo che è fondamentalmente ottimista.

Qualcosa di particolarmente emozionante a cui stai lavorando adesso?

Mi trovo immersa nel lavoro di avvio di un centro di ricerca con lo stesso spirito di chi sta lanciando una startup. Nell’ultimo anno ho collaborato alla guida di Tiresia, il gruppo del Politecnico di Milano sull’ecosistema dell’innovazione sociale. Stiamo crescendo molto, soprattutto sui temi della finanza e della misurazione di impatto sociale, in termini sia di ricerca prodotta sia di applicazione in vari ambiti. Incluso quello delle politiche pubbliche, che stanno evolvendo – con diversi gradi di consapevolezza – verso un cambio di paradigma. Dopo anni vissuti in altri settori della pubblica amministrazione, questa è un’esperienza molto diversa e interessante per metodo e contenuto. Anche perché mi permette di tornare a studiare assiduamente e in un modo che mi fa rimettere in discussione molte pratiche viste negli ultimi anni, con l’obiettivo di collaborare a una nuova generazione di politiche di sviluppo e innovazione inclusiva. Un “lusso” che si fatica a concedersi quando, ad esempio, vanno gestiti fondi strutturali europei o bandi pubblici per contributi alle imprese.

 

L’esperienza più interessante che hai fatto negli ultimi anni?

Qualche anno fa mi sono trasferita a Roma, per lavorare al MIUR, dove ho contribuito in particolare alla definizione del Programma Nazionale della Ricerca 2015-2020. È stata un’esperienza positiva, come tutte le cose complesse e su larga scala ovviamente con luci e ombre, che ha richiesto molta dedizione e perseveranza. In cambio mi ha offerto soprattutto una più profonda comprensione di come funziona il policy-making a livello centrale, e la possibilità di occuparmi del fattore di sviluppo più importante e spesso più negletto d’Italia: la ricerca. Quel periodo ha fatto maturare in me nuove domande, che mi sono parse inaffrontabili con la sola “pratica”. Innanzitutto sulla necessità di re-ingegnerizzare le politiche pubbliche, rinnovando il rapporto politica-amministrazione, nazionale-metropolitano, e quello con imprese e cittadini. In secondo luogo, su come i nostri sistemi istituzionali possano prevenire e migliorare la risposta ai rischi – in particolare sociali – generati dalla ricerca e dall’innovazione.

 

Una lezione che hai imparato e che racconteresti ad una platea di studenti?

I percorsi umani e professionali raramente sono lineari, e non credo possano più esistere carriere standard. Al contrario, mi sembra sia diventato indispensabile comprendere la propria vocazione e intorno a quella costruire un personalissimo puzzle di esperienze. Dieci anni fa, qualche anno dopo aver vinto un concorso per funzionario in una pubblica amministrazione, decisi di iniziare un dottorato di ricerca. L’idea era che – per fare meglio il mio lavoro – avessi bisogno di strumenti analitici più evoluti, ma pochi in quel momento mi incoraggiarono a compiere quel passo. L’amministrazione in cui allora prestavo servizio sembrava considerarlo un impegno aggiuntivo e non necessario, che forse nascondeva il desiderio di cambiare lavoro. Allo stesso tempo in università pochi comprendevano il senso di un dottorato che non avesse come sbocco la carriera accademica. Sono assolutamente convinta che quella fu un’intuizione importante nella mia vita, sebbene allora era un passaggio assolutamente non lineare e che continua a caratterizzarmi come “ibrido”. Mi intestardii e anni dopo ho capito di aver fatto la scelta meno scontata e più giusta.

 

Una cosa che non hai ancora fatto ma che prima o poi farai?

Lavorare in Sicilia. Mio padre viene da lì, e io continuo ad andarci ogni anno, ma in vacanza e mai con l’idea di viverci. Invece a un certo punto della mia vita mi piacerebbe portare il mio lavoro in una pubblica amministrazione siciliana per qualche anno. Un po’ per riprendermi quello che sento mio, il diritto di lavorare nel luogo dal quale vengo, un po’ perché vedo crescere una cittadinanza attiva molto bella e mi piacerebbe mettermi a disposizione. Ovviamente ad attrarre me e mio marito, che non manca mai di sostenermi, c’è anche il lato gastronomico, paesaggistico e culturale di questa regione!

 

Una persona che conosci bene e con una storia assolutamente da non perdere?

Aisha Mansur, una ragazza pakistana che ho conosciuto a Londra, dove eravamo entrambe studentesse di un Master. Era impossibile non notarla, sempre la prima ad alzare la mano per fare domande ai docenti, la prima a offrire il suo punto di vista e ad animare i dibattiti, a volte anche oltre misura. Veniva da Islamabad, e una sera con la sua parlantina mi ha raccontato di come intendesse spremere al massimo quel nostro anno di “libertà”. Pensava alla fatica e alla responsabilità di essere tra quei pochi del suo Paese ad essersi guadagnato la possibilità di accedere alle migliori università al mondo. , dopo un periodo di impegno nel suo Pakistan, è a Sidney, dove lavora per la Banca Mondiale. Gira l’Asia per convincere i diversi governi ad aggiornare i loro sistemi di welfare per renderli più inclusivi e resilienti, per esempio per tutelare maggiormente i poveri dai disastri naturali. Credo che le persone come lei siano simbolo di una “fame” e di una coscienza globale pulita e fresca alla quale guardare con attenzione. Per ritrovarla in noi stessi e per riconoscerla nel prossimo, a partire dalle persone costrette a migrare.

 

7 aprile 2017