L’esperienza più interessante che hai fatto negli ultimi anni?
Qualche anno fa mi sono trasferita a Roma, per lavorare al MIUR, dove ho contribuito in particolare alla definizione del Programma Nazionale della Ricerca 2015-2020. È stata un’esperienza positiva, come tutte le cose complesse e su larga scala ovviamente con luci e ombre, che ha richiesto molta dedizione e perseveranza. In cambio mi ha offerto soprattutto una più profonda comprensione di come funziona il policy-making a livello centrale, e la possibilità di occuparmi del fattore di sviluppo più importante e spesso più negletto d’Italia: la ricerca. Quel periodo ha fatto maturare in me nuove domande, che mi sono parse inaffrontabili con la sola “pratica”. Innanzitutto sulla necessità di re-ingegnerizzare le politiche pubbliche, rinnovando il rapporto politica-amministrazione, nazionale-metropolitano, e quello con imprese e cittadini. In secondo luogo, su come i nostri sistemi istituzionali possano prevenire e migliorare la risposta ai rischi – in particolare sociali – generati dalla ricerca e dall’innovazione.
Una lezione che hai imparato e che racconteresti ad una platea di studenti?
I percorsi umani e professionali raramente sono lineari, e non credo possano più esistere carriere standard. Al contrario, mi sembra sia diventato indispensabile comprendere la propria vocazione e intorno a quella costruire un personalissimo puzzle di esperienze. Dieci anni fa, qualche anno dopo aver vinto un concorso per funzionario in una pubblica amministrazione, decisi di iniziare un dottorato di ricerca. L’idea era che – per fare meglio il mio lavoro – avessi bisogno di strumenti analitici più evoluti, ma pochi in quel momento mi incoraggiarono a compiere quel passo. L’amministrazione in cui allora prestavo servizio sembrava considerarlo un impegno aggiuntivo e non necessario, che forse nascondeva il desiderio di cambiare lavoro. Allo stesso tempo in università pochi comprendevano il senso di un dottorato che non avesse come sbocco la carriera accademica. Sono assolutamente convinta che quella fu un’intuizione importante nella mia vita, sebbene allora era un passaggio assolutamente non lineare e che continua a caratterizzarmi come “ibrido”. Mi intestardii e anni dopo ho capito di aver fatto la scelta meno scontata e più giusta.
Una cosa che non hai ancora fatto ma che prima o poi farai?
Lavorare in Sicilia. Mio padre viene da lì, e io continuo ad andarci ogni anno, ma in vacanza e mai con l’idea di viverci. Invece a un certo punto della mia vita mi piacerebbe portare il mio lavoro in una pubblica amministrazione siciliana per qualche anno. Un po’ per riprendermi quello che sento mio, il diritto di lavorare nel luogo dal quale vengo, un po’ perché vedo crescere una cittadinanza attiva molto bella e mi piacerebbe mettermi a disposizione. Ovviamente ad attrarre me e mio marito, che non manca mai di sostenermi, c’è anche il lato gastronomico, paesaggistico e culturale di questa regione!
Una persona che conosci bene e con una storia assolutamente da non perdere?
Aisha Mansur, una ragazza pakistana che ho conosciuto a Londra, dove eravamo entrambe studentesse di un Master. Era impossibile non notarla, sempre la prima ad alzare la mano per fare domande ai docenti, la prima a offrire il suo punto di vista e ad animare i dibattiti, a volte anche oltre misura. Veniva da Islamabad, e una sera con la sua parlantina mi ha raccontato di come intendesse spremere al massimo quel nostro anno di “libertà”. Pensava alla fatica e alla responsabilità di essere tra quei pochi del suo Paese ad essersi guadagnato la possibilità di accedere alle migliori università al mondo. , dopo un periodo di impegno nel suo Pakistan, è a Sidney, dove lavora per la Banca Mondiale. Gira l’Asia per convincere i diversi governi ad aggiornare i loro sistemi di welfare per renderli più inclusivi e resilienti, per esempio per tutelare maggiormente i poveri dai disastri naturali. Credo che le persone come lei siano simbolo di una “fame” e di una coscienza globale pulita e fresca alla quale guardare con attenzione. Per ritrovarla in noi stessi e per riconoscerla nel prossimo, a partire dalle persone costrette a migrare.
7 aprile 2017