L’esperienza più interessante che hai fatto negli ultimi anni?
Ho avuto la fortuna di lavorare alla candidatura di Roma come sede dell’edizione 2024 delle Olimpiadi e Paralimpiadi. La candidatura non è stata completata per il ritiro da parte del Comune di Roma, ma ha rappresentato comunque per me un’esperienza unica e probabilmente irripetibile. La manifestazione olimpica e paralimpica è molto più di un grande evento sportivo, che già di per sé, coinvolgendo tutti i Paesi del mondo, rappresenterebbe un’occasione straordinaria di incontro di culture, colori, sapori. Lasciando da parte le polemiche legate ai possibili extracosti – che non hanno a che vedere con l’evento in sé ma con cattive gestioni e scarsa capacità organizzativa – partecipare alla progettazione di una candidatura ti porta a confrontarti con le eccellenze della città e del Paese per cui si compete, e allo stesso tempo a misurarti con altre candidature internazionali. Un tema portante di qualunque candidatura, per cui si viene premiati dal Comitato Olimpico Internazionale, è quello della legacy, vale a dire dell’eredità che la candidatura lascerà al territorio e alle nuove generazioni. Quello che è successo in passato è che non sempre sono state fatte scelte che hanno tenuto in conto il post-Olimpiade. È questo che ha portato a disastri come quello di Atene. Al contrario, Londra 2012 ha rappresentato un importante spartiacque dando slancio alla città, che ha vissuto una metamorfosi sia sul piano infrastrutturale sia perché ne ha approfittato per trasformarsi in hub dell’innovazione. Studiare tutto ciò ha modificato molto il mio pensiero e le mie convinzioni per quanto riguarda lo sviluppo sostenibile e mi ha dato uno slancio importante che ha finito per orientare le mie scelte di vita successive. Tra l’altro, come rappresentante di una città candidata, ho avuto anche l’occasione di vivere – nell’ambito del programma per osservatori del Comitato Paralimpico Internazionale – la Paralimpiade di Rio. È stata un’esperienza importantissima sotto il profilo sia professionale sia umano. Trovarsi in un villaggio olimpico che non solo contiene atleti provenienti da ogni angolo del mondo ma anche persone con qualunque disabilità, dalle più gravi alle minori, che hanno vinto la battaglia più importante sconfiggendo paure e falsi miti, cambia totalmente il tuo punto di vista su ciò che è possibile o impossibile fare nella vita. A Rio ho capito che l’unico ostacolo che esiste nel raggiungimento di un sogno è quello che ti poni da solo.
Una lezione che hai imparato e che racconteresti ad una platea di studenti?
Ci sono state tante lezioni importanti che mi hanno aiutata a cambiare prospettiva e a far evolvere la mia coscienza negli anni. Forse la più drastica è maturata in seguito al ritiro della candidatura olimpica, quando mi sono totalmente messa in gioco, ho scelto di lasciare un “posto sicuro” nell’azienda di famiglia e mi sono confrontata davvero con aspirazioni e sogni. Dopo Rio 2016 e le paralimpiadi, dopo aver visitato alcune favelas e aver visto progetti svolti da piccole associazioni per offrire un futuro diverso a bambini che nascono là dove sembra non esserci alcuna speranza, ho tentato di lavorare nel mondo no-profit perché sentivo di dover provare a fare anche io la mia parte e pensavo che il mondo profit mi portasse lontana da quella strada. Pensavo – sbagliandomi – che la mia professionalità sarebbe stata ben accolta in un mondo in cui spesso manca capacità manageriale e invece, non avendo avuto precedenti esperienze rilevanti in campo sociale, pur andando bene nei colloqui, non ho superato diverse selezioni. Non nascondo che ho avuto molti tentennamenti e anche la paura di aver intrapreso un percorso sbagliato e senza futuro. Soprattutto considerando che fino a quel momento avevo sempre ricoperto ruoli di responsabilità ovunque fossi stata. Dopo sei mesi di vuoto e senza stipendio, in cui avevo inviato curricula alle maggiori associazioni no profit, ho deciso di puntare anche a ruoli molto inferiori alle mie capacità pur di fare un’esperienza in quel settore ed è stato a quel punto che è arrivata una chiamata da Amnesty International. Mi sono ritrovata a fare una selezione per dialogatrice insieme a ragazze e ragazzi molto più giovani di me. Ma la vera difficoltà l’ho vissuta non in fase di selezione, ma dopo aver firmato il primo contratto. Era un venerdì e avrei iniziato il lunedì successivo. Non mi vergogno a raccontarlo: ho passato il fine settimane in lacrime chiedendomi se fossi per caso impazzita. Con tre figli e una casa da mantenere avevo mandato all’aria un lavoro importante e con cui guadagnavo bene per ricominciare con un lavoro che probabilmente non avrei accettato nemmeno da neo-laureata. Eppure mi ero laureata 19 anni prima e avevo sempre lavorato! Che cosa mi stava succedendo? Il primo giorno in strada con i miei colleghi mi guardavo intorno e mi sentivo davvero come un pesce fuor d’acqua. La stessa sensazione me la sono portata dietro per le prime due settimane di lavoro. Poi ho trovato dentro di me la forza di tirare fuori la mia energia migliore e con quella sono arrivati i risultati. Ho scoperto quanto mi piacesse dialogare con persone estranee, superare la barriera della diffidenza, incontrare sorrisi e storie incredibili e meravigliose. Si dice che la strada sia la scuola migliore. Io l’ho scoperto a 44 anni e ringrazio ogni giorno per quei sei mesi incredibili. Sono riuscita a superare le mie paure, le mie diffidenze, il terrore di incontrare persone che appartenessero alla mia vita precedente. I miei figli mi guardavano perplessi, la mia famiglia forse ancora non ha ben capito cosa facessi. Ma sono cresciuta, e quell’esperienza ha cambiato il mio modo di rapportarmi con le persone con cui oggi collaboro, avendo tra l’altro sviluppato molta più empatia. Questa è senza dubbio l’esperienza che racconterei in un’aula di giovani per far capire loro che l’importante non è non cadere mai, ma sapere come trovare sempre dentro di sé la forza che serve per andare avanti.
Una cosa che non hai ancora fatto ma che prima o poi farai?
Adoro viaggiare e mi piace farlo con i miei figli. Vorrei un giorno poter prendere qualche mese per fare un giro del mondo, zaino in spalle, e visitare luoghi lontani dalla nostra cultura. Sarebbe per me un modo meraviglioso per condividere con loro una mia passione. Sarebbe per loro un’occasione per imparare lezioni che non si apprendono dietro un banco di scuola o guardando un documentario. Aiuterebbe tutti noi a creare delle memorie per il futuro. Bisognerà trovare il giusto incastro tra impegni lavorativi e loro impegni scolastici, ma sono certa che se non perderò di vista questo sogno un giorno lo realizzerò. Serve solo dosare bene determinazione e pazienza.
Una persona che conosci bene e con una storia assolutamente da non perdere?
Ho conosciuto diverse storie eccezionali lungo il mio percorso professionale. Storie di persone che hanno fatto la differenza nelle loro aziende e organizzazioni. Ma le storie che tengo a mente quotidianamente sono le storie di persone semplici che si sono create un futuro pur venendo dal niente. Soprattutto vicende di donne, orgogliose e tenaci, che hanno saputo trasformare situazioni che avrebbero distrutto chiunque in metamorfosi e rinascite. In un centro antiviolenza ho conosciuto Danayi, giovanissima ragazza cubana, finita lì per aver seguito in Italia a soli 18 anni un uomo italiano che si è scoperto solo dopo essere sposato qui nel nostro Paese. Una bimba piccola da mantenere e un percorso di violenza alle spalle, ma tanta voglia di farcela. Grazie alle sue mani d’oro ha saputo mettere in atto grandi capacità sartoriali, trovare un lavoro, dedicarsi alla sua passione. Non dimenticherò mai lo sguardo che aveva il giorno in cui ha ricevuto il suo primo stipendio. Disse con le lacrime agli occhi: “che bello, la settimana prossima potrò mandare la mia bambina in gita con la sua classe!”. La sua commozione fu contagiosa. Oppure la storia di una giovanissima ragazza nigeriana, arrivata a soli 19 anni in Italia su un barcone. Scappata dalla guerra, dalla miseria e da un non-futuro. Sola con la mamma nel suo Paese, un padre scappato di casa e la madre costretta a letto dalla disabilità, è dovuta fuggire perché non avevano soldi e sarebbe stata destinata a prostituirsi o a qualcosa di molto vicino alla schiavitù. È arrivata qui senza soldi e senza nessuno, con solo la volontà di costruire per se stessa un futuro migliore nella consapevolezza che molto probabilmente non vedrà mai più il suo Paese e neppure sua mamma. Anche in questo caso, la più grande emozione c’è stata nel momento in cui ha ricevuto un’offerta di lavoro, perché l’indipendenza economica è indice di libertà. Queste, come tante altre, sono le storie che non dimentico e che mi accompagnano nelle scelte di ogni giorno. Sono le storie che racconto ai miei tre figli nella speranza di vederli crescere adulti responsabili e sensibili; le storie che mi fanno impegnare – nel mio piccolo – nella costruzione di un mondo più sostenibile e inclusivo.
26 ottobre 2018